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Chirurgia

Chirurghi in punta di bisturi

I chirurghi non hanno fatto tutto da soli. I loro successi nella lotta contro il cancro sono dovuti anche a strumenti di diagnosi più precoce, per cui oggi spesso possono asportare tumori ancora piccoli e poco estesi; alla collaborazione degli oncologi medici e dei radioterapisti, che talvolta con le medicine o i raggi riducono la massa tumorale prima che il malato arrivi in sala operatoria; ma anche degli ingegneri, che hanno messo a loro disposizione strumenti sempre più d’avanguardia, fino ai robot che oggi collaborano all’asportazione di molti tumori, soprattutto quelli della prostata.

La tecnologia al servizio del chirurgo

In molti casi la ricerca di interventi sempre meno aggressivi è stata possibile grazie alle innovazioni proposte di volta in volta dalla tecnologia.

Queste a volte rendono più preciso e sicuro il lavoro in sala operatoria, per esempio con robot e navigatori, altre volte consentono di evitare un intervento chirurgico vero e proprio.

Ecco alcuni strumenti che hanno sostituito il bisturi tradizionale:

  • il laser, con cui si riescono ad asportare, oltre alle lesioni benigne, anche quelle maligne in fase iniziale, per esempio sulla mucosa della bocca, sul collo dell’utero, sulla vagina o sul pene;
  • l’endoscopia, che assomma in sé capacità diagnostiche e terapeutiche. Un polipo individuato in questo modo può essere asportato direttamente durante l’esame, evitando un vero e proprio intervento chirurgico successivo;
  • gli ultrasuoni ad alta densità permettono di distruggere il tessuto tumorale, per esempio quello della prostata attraverso una sonda rettale;
  • l’ablazione con radiofrequenze consiste nel bruciare il tessuto tumorale, per esempio a livello del fegato, con un ago, riscaldato a 100 °C tramite un generatore di corrente elettrica e introdotto sotto la guida dell’ecografia. Si applica anche alle metastasi, in alternativa ad altri metodi di distruzione mirata, come l’introduzione di etanolo (alcolizzazione) o di sostanze che formano emboli attraverso le arterie (chemioembolizzazione).

Dal massimo tollerabile al minimo efficace

A cambiare la faccia della chirurgia oncologica non è stata solo la tecnologia, ma anche il coraggio e la volontà di rivisitare il concetto di “chirurgia radicale”, cioè più estesa possibile, propugnata alla fine dell’Ottocento soprattutto da William Halsted, chirurgo statunitense da cui prende il nome l’intervento più ampio di asportazione della mammella. Grazie alla perseveranza di pionieri come Umberto Veronesi, che hanno osato sfidare convinzioni consolidate tra i loro colleghi, dagli anni Settanta in poi, si è passati da una tecnica chirurgica basata sul “massimo tollerabile” a una che si limita al “minimo efficace”, un intervento calibrato cioè per asportare la minima quantità di tessuto indispensabile per garantire l’efficacia dell’intervento.

All’Istituto dei tumori di Milano, a partire dal 1973, Veronesi mise a confronto su 700 pazienti con tumori non superiori a 2 centimetri-- con un metodo scientifico inattaccabile e rigoroso, del tutto infrequente allora, soprattutto in chirurgia -- il classico intervento di mastectomia radicale messo a punto 80 anni prima da Halsted con la sua nuova proposta: l’asportazione del solo quadrante del seno interessato dal tumore (quadrantectomia), insieme con lo svuotamento dell’ascella dei suoi linfonodi e una radioterapia postoperatoria. In termini di sopravvivenza, il risultato non cambiava, ma si limitavano le mutilazioni, con il loro corteo di devastanti effetti psicologici, sociali e comportamentali.

Il cambiamento non ha riguardato solo il tumore al seno: una volta affermato il nuovo principio, questo si è esteso ad altre malattie, per esempio ai piccoli tumori della laringe, in cui oggi è talvolta possibile risparmiare le corde vocali e quindi la voce, o ai tumori del colon retto, in cui in moltissimi casi si riesce a evitare una stomia permanente, cioè di dover ricorrere per tutta la vita al cosiddetto “sacchetto”.

Mentre un tempo il concetto di “radicalità” era a priori, per cui si pensava che in ogni caso fosse sempre meglio togliere il più possibile, molti studi successivi hanno aiutato i chirurghi a definire meglio i limiti dei loro interventi, in modo da ottenere lo stesso risultato senza effetti devastanti sull’aspetto e la qualità della vita del malato dopo l’operazione. Riconoscendo così che anche la qualità della vita e il benessere psicologico hanno un valore.

Allo stesso scopo ha preso piede, ed è ormai considerata irrinunciabile, anche la chirurgia ricostruttiva: per curare non più un tumore che è stato ormai tolto, ma la persona che porta ancora i segni della malattia.